(estratto e adattato dal corso di Relatività)
La fisica nel XIX secolo postulava che le onde (elastiche e sonore certamente, ma anche luminose) dovessero avere un mezzo che consentisse la propagazione. Nel caso della luce si era ipotizzata l’esistenza di un “etere luminifero” come mezzo di propagazione. Questo “etere” doveva avere caratteristiche piuttosto sorprendenti, perché doveva essere allo stesso tempo molto rigido (a causa della elevata velocità di propagazione luce) e molto flessibile (perché non doveva ostacolare il movimento dei corpi). Albert A. Michelson decise di provare a misurare la velocità della luce in differenti direzioni per vedere se si trovasse traccia di un vento d’etere generato da una sorta di “trascinamento” di questo, usando a tale scopo uno strumento da lui stesso ideato che successivamente prese il nome di interferometro di Michelson.
Il suo apparecchio prototipale non aveva tuttavia la precisione sufficiente per escludere con certezza l’esistenza di un movimento nell’etere. Per questo decise di effettuare esperimenti più precisi e nel 1887 si mise in contatto con Edward Morley, che offrì il suo seminterrato per un nuovo esperimento. A tale scopo venne utilizzato un interferometro montato su una lastra di pietra quadrata di 15 cm di lato e circa 5 cm di spessore. Per eliminare le vibrazioni la lastra veniva fatta galleggiare su mercurio liquido, accorgimento che permetteva inoltre di mantenere la lastra orizzontale e di farla girare attorno ad un perno centrale. Un sistema di specchi inviava il raggio di luce per un percorso di otto viaggi di andata e ritorno allo scopo di rendere il viaggio del raggio di luce più lungo possibile.
Se la velocità di propagazione della luce nei due bracci dell’interferometro fosse diversa a causa del vento dell’etere, i due fasci di luce impiegherebbero un tempo diverso per tornare a incontrarsi al
centro e quindi le oscillazioni nei due fasci presenterebbero una differenza di fase. Questo provocherebbe la formazione di frange chiare e scure, che dovrebbero spostarsi variando l’orientamento dello
strumento rispetto al vento dell’etere. La differenza attesa nei tempi impiegati dalla luce per percorrere i bracci dell’interferometro parallelo e perpendicolare al vento dell’etere si calcola facilmente.
Anche con questo nuovo esperimento non si trovò traccia di un vento d’etere, la velocità della luce risultava indipendente dalla direzione e di poco inferiore a 300 000 km/s. La stessa cosa si verificava anche ripetendo l’esperimento a distanza di tempo e di luogo. Con questi esperimenti si dimostra in sostanza il fallimento della legge di composizione galileiana delle velocità nel caso della luce, e questo perché la luce non viene trascinata da nessun mezzo fisico. Due spiegazioni sono possibili al fallimento dell’esperienza di Michelson–Morley:
• il braccio dell’interferometro nella direzione del moto dell’etere si accorcia, in modo da compensare la differenza nei tempi di percorrenza. Si tratta della contrazione delle lunghezze di Lorentz-Fitzgerald che sarà resa nota dalla relatività ristretta, ma che era già nota alla fine dell’Ottocento grazie proprio a Lorentz et Fitzgerald
• la velocità della luce è in realtà la medesima in tutte le direzioni, indipendentemente dal moto.
Einstein accetta questa seconda soluzione, che va considerata come una affermazione dell’isotropia dello spazio per tutti gli osservatori. Secondo Einstein, la spiegazione di tale risultato è semplicemente che non vi è nessun etere.
Questa conclusione, ovvero che la velocità della luce è indipendente dal moto della sorgente e dell’osservatore, fu l’ipotesi da cui partì Einstein per sviluppare la teoria della relatività ristretta.
Abbiamo detto che in realtà è possibile dare due interpretazioni del fallimento dell’esperimento di Michelson–Morley. Si può dimostrare che le due affermazioni sono in realtà matematicamente equivalenti: infatti, l’ipotesi che il braccio dell’interferometro si contrae nella direzione del moto conduce alle leggi di trasformazione di Lorentz piuttosto che a quelle galileiane, e queste leggi implicano a causa della loro forma matematica una velocità di propagazione della luce costante. D’altra parte, l’ipotesi della velocità della luce costante implica che la legge di trasformazione fra i sistemi di riferimento sia necessariamente quella Lorentz e non quella di Galilei.
Storicamente, il problema era certamente quello di dimostrare l’esistenza o meno dell’etere, ma soprattutto quello di comprendere perché nelle leggi di Maxwell comparisse la velocità di propagazione della luce e come queste potessero essere invarianti per cambiamento di sistema di riferimento. Concretamente, non si capiva come le leggi dell’elettromagnetismo potessero conservare esattamente la stessa forma nel passaggio fra sistemi di riferimento inerziali pur comparendo in esse esplicitamente la velocità di propagazione delle onde (che si sapeva già uguale a c), velocità che — come tutte le altre — si sarebbe dovuta comporre invece secondo le leggi di Galileo.
Einstein era già al corrente di alcuni esperimenti che parevano dimostrare che la velocità della luce fosse effettivamente costante e fece il grande balzo concettuale di postulare che la velocità della luce fosse effettivamente la stessa indipendentemente dal moto della sorgente o dell’osservatore, probabilmente perché era l’ipotesi più semplice e elegante.
Come conciliare questo con il senso comune?
Einstein notò che la velocità è semplicemente una misura di spazio diviso una misura di tempo. Per giustificare la costanza della velocità della luce, che va contro il senso comune espresso dalla composizione galileiana delle velocità (se mi muovo a 50 km/h e qualcuno mi viene incontro a 50 km/h, la nostra velocità relativa è di 100 km/h, non di 50 km/h!), Einstein dedusse che per un osservatore in moto la misura dello spazio e del tempo dovevano modificarsi rispetto ad un osservatore in quiete, e questo in un modo specifico tale da preservare il loro rapporto. In altri termini, un osservatore in quiete vede un raggio luminoso viaggiare a velocità c. Un osservatore che sia in moto a velocità c/2 che insegua questo raggio di luce lungo la stessa direzione, non lo vede allontanarsi da lui a c/2. Quando cercherà infatti di misurare la velocità della luce facendo una misura di distanza e di tempo, le sue misure risulteranno deformate rispetto all’osservatore in quiete in maniera tale che il loro rapporto sia sempre c. Quindi, secondo il pensiero di Einstein, l’esperimento di Michelson–Morley era destinato a fallire perché la velocità della luce non si può comporre secondo le leggi di galileiane. Quindi la soluzione del problema implica che sia il tempo che lo spazio devono modificarsi per un osservatore in movimento.
La legge che descrive come lo spazio e il tempo devono deformarsi per un osservatore in movimento si trova essere proprio quella di Lorentz!
Lo sviluppo di questa posizione e l’analisi delle sue conseguenze è quello che dà origine alla teoria della relatività ristretta. La sua estensione ai sistemi che includono gravitazione condurrà alla Relatività Generale.
Questo articolo è tradotto anche in fr_FR.